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Oggi ricorre la morte di Filippo Bruno, noto con il nome di Giordano Bruno (1548 –1600) e giustiziato, come si sa, in Campo de’ Fiori, a Roma. Tale episodio – certamente triste – viene puntualmente ricordato e presentato come prova dell’odio che la Chiesa nutrirebbe ed avrebbe sempre nutrivo nei confronti della razionalità e libero pensiero, di cui il celebre frate domenicano sarebbe stato campione. Ora, benché gli storici abbiano da tempo fatto chiarezza su molti aspetti della vicenda, i più ne hanno ancora un’idea molto parziale, ragion per cui può giovare ricordare sinteticamente alcuni passaggi.
Il primo concerne proprio la figura di Bruno, che sarebbe incauto considerare paladino del mondo scientifico o simbolo del pensiero razionale. Il filosofo di Nola, infatti, era attirato anzitutto dal mondo della magia: scrive per esempio lo storico Mircea Eliade (1907 –1986) che se costui «accolse con tanto entusiasmo le scoperte di Copernico, fu anche perché riteneva che l’eliocentrismo avesse un profondo significato religioso e magico» e «quando si trovava in Inghilterra […] profetizzò il ritorno imminente della religione magica degli antichi Egizi quale veniva descritta nell’Asclepius» (Storia delle credenze e delle idee religiose, Bur, vol.III, p. 279).
Anche il temperamento dell’uomo non era esattamente mite, come mostra quanto accadde a Ginevra, capitale del calvinismo, dove Bruno arrivò nel 1579 dando presto alle stampe un testo attraverso il quale – mentendo platealmente, a quanto pare – attaccava violentemente un professore del luogo che non gli aveva fatto nulla. Per questo venne processato dai membri del Concistoro – non cattolico, ma calvinista appunto – e costretto in ginocchio a lacerare il suo opuscolo, ammettendo la propria colpa. Dunque il rapporto di Bruno non fu tempestoso solamente con la Chiesa di Roma.
Né si può affermare – terza osservazione – che Bruno, figura dai contributi scientifici discutibili come si è visto, brillasse particolarmente per umiltà, come prova una missiva con la quale – offrendosi volontario per ottenere una cattedra ad Oxford, qualche anno dopo – presentò se stesso. Queste la sobrie parole: «Professore di una sapienza più pura e innocua, noto nelle migliori accademie europee, filosofo di gran seguito, ricevuto onorevolmente dovunque, straniero in nessun luogo, se non tra barbari e gli ignobili… domatore dell’ignoranza presuntuosa e recalcitrante… ricercato dagli onesti e dagli studiosi, il cui genio è applaudito dai più nobili…».
Peccato che alla terza lezione venne accusato di plagio e invitato ad andarsene. Dopo altri passaggi non molto gloriosi – anche in Germania chiese ed ottenne una cattedra universitaria entrando però presto in conflitto col rettore e facendosi cacciare ancora – ritornò in Italia nell’agosto 1591. Possiamo quindi ora – come quarto ed ultimo passaggio – soffermarsi sulla vicenda giudiziaria di Bruno, denunciato, una volta rimpatriato, da un suo vecchi amico: il processo si concluderà nel 1593 con un non luogo a procedere, ma in conseguenza di nuove denunce e testimonianze ve ne fu una seconda fase del processo, che durò dal 1593 fino al rifiuto della ritrattazione e all’esecuzione capitale nel febbraio del 1600.
C’è da dire che Bruno, che pure in alcune fasi si era dichiarato pentito arrivando – come fece nel luglio 1592 – a gettarsi a piedi degli inquisitori implorando perdono –, avrebbe potuto salvarsi abiurando le proprie tesi, cosa che gli fu chiesta anche da san Roberto Bellarmino (1542 –1621), che lo incontrò per salvargli la vita (Cfr. Ciliberto – Giorello, Giordano Bruno, Milano 2004, p. 91). Va pure detto che nel periodo trascorso nel carcere dell’Inquisizione durante il processo, venne trattato con tutto rispetto: «Letto e tavola, con lenzuola, tovaglie e asciugamani da mutarsi due volte la settimana, veniva di sovente condotto davanti la Congregazione per riferire in merito alle sue necessità materiali, aveva comodità di barbiere, bagno, lavanderia e rammendatura, provvista di capi di vestiario, vitto non scadente e financo il vino» (Firpo L. Il processo di Giordano Bruno, Napoli 1949, p. 29).
Ciò nonostante le cose andarono come sappiamo e non manca nella Chiesa – né di allora, né di oggi – il rammarico per quella vicenda certamente drammatica ma che però sarebbe scorretto giudicare coi parametri di oggi. Così com’è discutibile continuare a ritenere Bruno un martire della scienza, sia perché il suo contributo appare quanto meno discutibile sia di perché grandi scienziati assassinati, di fatto, la storia è piena senza bisogno di includervi chi non lo fu: pensiamo a quando i mitici rivoluzionari francesi ghigliottinarono chimico Antoine Lavoisier (1743–1794), un gigante assoluto, oppure al filosofo, matematico e specialista in ingegneria elettrotecnica Pavel Florenskij (1882-1937), da alcuni ribattezzato il Leonardo da Vinci russo e morto fucilato dal regime comunista; persone le cui morti rimangono ben poco commemorate. Chissà come mai.
 
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