Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

domenica 19 ottobre 2014

Palo VI° Beato 1897 - 1978

Un rapporto vitale  Kairòs

<br>


Cristocentrismo. Pubblichiamo la parte centrale della meditazione dal titolo «Paolo VI, un ritratto spirituale» che il priore di Bose ha letto nella cattedrale di Brescia il 5 ottobre scorso, alla presenza del vescovo Luciano Monari.
(Enzo Bianchi) Ricordo ancora vivamente il modo in cui Paolo VI proclamava il termine “Cristo”: con voce convinta e vibrante, ripetendolo più volte, quasi in una litania nella quale egli vi accostava definizioni e attributi densissimi. Già in questa espressione, e nello stile con cui la pronunciava, si intuivano tutto l’amore, tutta la fede e tutta la speranza che Paolo VI poneva nel Signore Gesù Cristo. La sua vita spirituale — tutti l’hanno notato — era essenzialmente cristocentrica, perché Cristo, il Figlio di Dio e l’uomo nato da Maria, era al centro di ogni suo pensiero, parola e azione. Restano memorabili le sue parole del 29 settembre 1963, nell’allocuzione di apertura della seconda sessione del concilio, quando volle raffigurarsi nel suo rapporto con Cristo ricorrendo a questa immagine: «Noi sembriamo quasi rappresentare la parte del nostro predecessore Onorio III che adora Cristo, come è raffigurato con splendido mosaico nell’abside della basilica di San Paolo fuori le Mura. Quel pontefice, di proporzioni minuscole e con il corpo quasi annichilito prostrato a terra, bacia i piedi di Cristo, che, dominando con la mole gigantesca, ammantato di maestà come un regale maestro, presiede e benedice la moltitudine radunata nella basilica, che è la chiesa».
Questa è veramente l’icona capace di illustrare il rapporto vitale che Paolo VI viveva con il Cristo Signore. Egli aveva un profondo senso di umiltà e di indegnità personale, confessava la sua pochezza e il suo peccato, come Pietro quando disse a Gesù: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore» (Luca, 5, 8). Ma si sentiva anche un suo discepolo chiamato e amato, un successore di Pietro al quale Gesù continuava a chiedere nient’altro che l’amore: «Mi ami tu? … Pasci i miei agnelli» (Giovannni, 21, 15). Quante volte la penna di Paolo VI trascrive le parole di questo brano evangelico in cui Pietro è fatto pastore sull’unico fondamento del suo amore per Cristo!
La sera della sua elezione a papa, il 21 giugno 1963, così scrive: «Sono nell’appartamento pontificio: impressione profonda di disagio e di confidenza insieme … Il mondo mi osserva, mi assale. Devo imparare ad amarlo veramente. La chiesa qual è. Il mondo qual è. Quale sforzo! Per amare così bisogna passare per il tramite dell’amore di Cristo: mi ami? Pasci! O Cristo, o Cristo! Non permettere che io mi separi da te» (testo citato in Pasquale Macchi, Paolo VI nella sua parola, Brescia, Morcelliana, 2014).
Cristo era per Paolo VI “il compagno inseparabile”. Si può dire che lui viveva insieme a Cristo (cfr. I Tessalonicesi, 5, 10), e tutto ciò che pensava, viveva, decideva, diceva e scriveva, sembra averlo fatto con accanto questa presenza. Segno di questo legame spirituale è anche un piccolo libretto, il Manuale christianum (Malines, H. Dessain, 1914), contenente tra gli altri il Nuovo Testamento e il De Imitatione Christi, che Paolo VI porterà sempre con sé, anche nei viaggi apostolici, fino al termine della sua vita.
Il Cristo in cui egli credeva e che amava era quello dei vangeli, letti con assiduità, meditati e pregati; vangeli certamente anche attualizzati grazie all’aiuto di varie opere su Cristo, in particolare di autori del ‘900, ma soprattutto accostati come richiesto dall’Imitazione di Cristo: attraverso la liturgia e l’ascesi cristiana che impegna a una continua reformatio di se stessi e delle realtà affidate a noi dalla volontà divina. Da tutti gli scritti di Paolo VI si riceve la testimonianza di una sequela sempre più intima di Cristo, che egli sente come Figlio di Dio venuto nel mondo attraverso l’incarnazione, ma per questo «Figlio dell’uomo, … [che] ha raffigurato in sé l’umanità nella sua tragica, immonda, conclusiva realtà: dolore e peccato. L’umanità lebbrosa di tutti i suoi mali, specchio del più spaventoso realismo; ognuno vi si ritrova. Ma perché?… Per far trovare noi stessi in lui; per assumere in sé ogni nostra sofferenza, ogni nostra miseria; per immensa, silenziosa, discreta ed effettiva simpatia. Per essere lui noi stessi» (Pasquale Macchi, Paolo VI nella sua parola).
Paolo VI aveva un senso fortissimo del peccato dell’uomo, ma poneva questo peccato davanti a Cristo, confidando nella sua misericordia e nel suo perdono. Come non ricordare la grande preghiera litanica fatta nella basilica del Santo Sepolcro, durante il suo pellegrinaggio in Terra santa del gennaio 1964: «Siamo qui, Signore Gesù. Siamo venuti come i colpevoli che ritornano al luogo del loro delitto …Tu sei la nostra redenzione e la nostra speranza» (ibidem).
Nel 1921, dunque a 24 anni, scriveva: «Desidero vederlo, Gesù, forse presto», e questo “voler vedere Gesù” è la sua ricerca essenziale, il filo conduttore di tutta la sua vita. In uno scritto di dieci anni dopo annota: «Voglio che la mia vita sia una testimonianza alla verità per imitare così Gesù Cristo, come a me si conviene» (cfr. Giovanni, 18, 37). Egli sceglie il nome di Paolo perché — confessa in una nota manoscritta dopo la sua elezione — l’Apostolo era «amoroso di Cristo», amante di Cristo. Durante tutto il pontificato ha sentito rivolte a sé le parole del Signore: «Mi ami? … Pasci i miei agnelli». E nel Pensiero alla morte, il testo (preparatorio al Testamento) che è forse il più espressivo di Paolo VI, esclama in forma di preghiera: «Meraviglia delle meraviglie, il mistero della nostra vita in Cristo» (Pasquale Macchi, Paolo VI nella sua parola).
Il cristocentrismo di Paolo VI è un vivere con Cristo al centro, è un riconoscere Cristo come Signore, è una comunione con un Cristo che è compagno e amante! Cristo, infatti «è il centro della storia e del mondo; egli è colui che ci conosce e che ci ama; egli è il compagno e l’amico della nostra vita» (Manila, omelia del 29 novembre 1970). Davvero — per citare Papa Francesco — «Paolo VI ha saputo testimoniare, in anni difficili, la fede in Gesù Cristo. Risuona ancora, più viva che mai, la sua invocazione: “Tu ci sei necessario o Cristo!” Sì, Gesù è più che mai necessario all’uomo di oggi, al mondo di oggi, perché nei “deserti” della città secolare lui ci parla di Dio, ci rivela il suo volto» (22 giugno 2013).
Proprio questo porre Cristo al centro, questo suo decentrarsi, mette in evidenza un tratto fondamentale della vita spirituale di Paolo VI, a cui già si è fatto cenno: la virtù dell’umiltà, che egli cercava di manifestare anche nell’esercizio del ministero petrino. Sono molti i gesti che ne danno testimonianza, ma è sufficiente ricordare la pulsione che Paolo VI sentì prepotente in sé alla fine della concelebrazione che il 14 dicembre 1975, nella Cappella Sistina, ricordava la reciproca abrogazione delle scomuniche tra le chiese di Roma e di Costantinopoli, avvenuta dieci anni prima. Sceso dall’altare, il Papa si avvicinò al metropolita Melitone, inviato del Patriarcato ecumenico, cadde in ginocchio davanti a lui e gli baciò i piedi. Gesto improvviso, di cui nessuno era preavvertito; gesto che sorprese tutti e — dobbiamo ricordarlo — destò critiche al papa. Un noto teologo scrisse, su una rivista arcivescovile, che era miserevole diminuire così il papato davanti a un vescovo ortodosso! Paolo VI aveva nel cuore “passione”, non era affatto un moderato nei sentimenti, e se a volte si esprimeva in modo enfatico – per esempio: «Eccoci dunque in mezzo a voi. Il nostro nome è Pietro» (Ginevra, Discorso al Consiglio ecumenico delle chiese, 10 giugno 1969) — tuttavia conservava un cuore disponibile all’abbassamento, all’arte della kènosis per amore di Cristo.
L'Osservatore Romano,

Una tesi di laurea dedicata a Paolo VI e Humanae vitae


humanae

da Francesco Agnoli
Pubblichiamo qui una sintesi della tesi di licenza magistrale discussa nei mesi scorsi da Marina Bicchiega presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Beato Gregorio X” di Arezzo, collegato alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale. L’oggetto della tesi è “La Regolazione Naturale della Fertilità: una frontiera della bioetica tra scienza, fede e cultura”. Questa la dedica introduttiva: «Al coraggio di Paolo VI per aver donato al mondo l’Humanae vitae.
E alla perseveranza di tutti coloro che, come Flora Gualdani, l’hanno fatta diventare prassi tra la gente». Lo studio verrà prossimamente dato alle stampe in forma integrale.
*** *** ***
In questo studio, discusso nel luglio 2014, ho approfondito il tema bioetico dei “metodi naturali” da varie angolature. Ho anzitutto analizzato il loro progresso scientifico nel corso dei decenni, mostrando con i dati ciò che affermava Cicerone: «nessuna scoperta è subito perfetta». I moderni metodi di osservazione hanno raggiunto infatti un’affidabilità ormai pressoché totale, al pari della più comune contraccezione ormonale. La letteratura medica, pur se ancora ignorata dall’opinione pubblica, ne attesta il successo e la praticabilità anche nei paesi poveri, con esperienze particolarmente significative in India (su iniziativa di Madre Teresa) e più recentemente in Cina. Pure il mondo femminista da anni sta dimostrando interesse per questa salutare consapevolezza corporea (fertility awareness). Ciò mentre emergono segnali di insoddisfazione verso la contraccezione: nel mondo occidentale, da tempo gli addetti ai lavori parlano di “stanchezza contraccettiva”.
Illustrando i fondamenti della regolazione naturale della fertilità e le tre generazioni di metodi che si sono succedute nel XX secolo, ho spiegato quindi che, mentre inizialmente venivano usati per rinviare o evitare una gravidanza, oggi rappresentano un valido strumento diagnostico di conoscenza anche per la ricerca della gravidanza.
Nella parte centrale della tesi ho ripercorso, analizzandone la linea di continuità, la dottrina della Chiesa cattolica dagli albori fino al dibattito pre-sinodale degli ultimi mesi a proposito di contraccezione, castità e procreazione responsabile. Avvalendomi di una poderosa ricostruzione storica curata dal bioeticista Puccetti, nell’excursus mi sono soffermata sulle discussioni emerse durante il Concilio Vaticano II e nella famosa commissione pontificia. Con alcuni sguardi dietro le quinte, ho voluto indagare più a fondo la travagliata genesi dell’enciclica Humanae vitae, evidenziando il coraggio che ebbe Paolo VI nell’affrontare una durissima impopolarità proprio nel momento in cui la società stava vivendo l’ebbrezza della rivoluzione sessuale realizzata attraverso la diffusione della pillola anticoncezionale che «prometteva al mondo felicità e pace» (Scaraffia). Il card. Ratzinger spiega che «guidare la nave fra Scilla e Cariddi fu il difficile compito toccato a Paolo VI, in uno sforzo quasi sovrumano». Papa Montini trovò il coraggio di «spiacere a tutti per non mentire a nessuno» (Agasso), e prima di morire affermò: «dell’Humanae vitae ringrazierete Dio e me».
Nell’analizzare il vivace dibattito conciliare ho osservato come, sorprendentemente, la storia pare ripetersi oggi a cinquant’anni di distanza di fronte al Sinodo straordinario sulla famiglia: anche allora infatti fu distribuito un questionario alle diocesi, gli episcopati mitteleuropei furono i più critici contro il magistero in materia sessuale, con la sponda dei mass media che alimentavano a livello mondiale una forte aspettativa nell’opinione pubblica circa una riforma della dottrina. Esattamente come allora, le obiezioni teologiche, scientifiche, filosofiche ed antropologiche, riguardavano principalmente la “praticabilità” dei metodi naturali e la riflessione sul concetto di “natura”.
Ho attraversato tutta la risposta che san Giovanni Paolo II ha fornito con il suo pontificato a questo grande dibattito, mediante gli insegnamenti sull’amore umano e l’elaborazione della teologia del corpo: un magistero accurato ed articolato che viene da lontano, frutto della sua lunga esperienza di pastore a contatto con i giovani e gli sposi. Una riflessione che non è affatto vecchia bensì tuttora «sconosciuta a molti cardinali» (Caffarra). Dietro i suoi insegnamenti scopriamo il contributo di alcune figure straordinarie come i medici Wanda Poltawska e Anna Cappella, grandi donne di scienza e di fede.
Analizzando la mole del suo magistero sul tema, ho voluto evidenziare una serie di indicazioni che san Giovanni Paolo II ci dà anche sul piano pastorale. Nello studio e nell’esperienza sul campo mi sono sempre più convinta, infatti, che la chiave di volta sta in uno dei concetti su cui insisteva molto: lo «sguardo contemplativo» nei confronti di tutto il creato (a partire dalla creatura umana), insieme all’educabilità dell’uomo redento da Cristo. E’ recuperando questo tipo di sguardo creaturale, davanti alla maestà e alla bellezza della natura, alla sua meravigliosa armonia e alle sue leggi, che l’uomo sceglie più facilmente un atteggiamento di gratitudine e quindi di rispetto per il piano di Dio. Ciò in un’epoca dove la società tecnologica tende a rinnegare l’esistenza delle leggi di natura e a sacralizzare i desideri tecnoesaudibili, perdendo per strada la metafisica della natura che caratterizza invece il modello bioetico del personalismo ontologicamente fondato (Sgreccia).
Ho fatto notare che la necessità di un’etica dello stupore è recentemente emersa anche in letteratura medica, ma si ricava già da filosofi e teologi tra cui Benedetto XVI. Coniugando scienza e fede, essa ci aiuta a scoprire che nella persona umana è inscritto un Logos, fatto di segni e significati. Il linguaggio di Dio si lascia decifrare dalla ricerca scientifica, e l’uomo moderno capisce che, con la ciclicità della fertilità, la pedagogia del Creatore ha pensato ai giorni dell’astinenza come un preciso percorso di crescita per la coppia. E’ questa la pista di riflessione tracciata da Wojtyla, che anche il dibattito degli ultimi mesi pare purtroppo non comprendere: il biografo Weigel la definisce «una bomba ad orologeria» che, quando verrà scoperta in tutta la sua grandezza, produrrà effetti spettacolari.
Seguendo la raccomandazione di san Giovanni Paolo II, ho sottolineato l’irriducibile distanza antropologica tra metodi naturali e contraccezione, spiegando l’irrilevanza etica dell’argomento artificiale-naturale. La vera differenza risiede infatti nell’esercizio della virtù per amore, fulcro di uno stile di vita che porta con sé ricchezza di contenuti e un cammino di maturazione della relazione sponsale. Ho cercato cioè di spiegare che la castità coniugale non toglie nulla alla sessualità di coppia ma gli restituisce pienezza. La tesi affronta quindi il nodo del dibattito, ovvero il rapporto fra Creatore, natura e creatura, partendo dalla frattura tra sessualità e procreazione. Ho fatto notare che lo stile di vita dei metodi naturali costituisce anche una formidabile sfida culturale alla società contemporanea, proiettata a recuperare il rispetto per la natura su tanti campi ma ancora refrattaria a riconoscere l’importanza di questo capitolo dell’ecologia umana, cui lo stesso papa Francesco ha già dedicato varie riflessioni. Ho mostrato infatti come i metodi naturali si collocano a pieno titolo nella questione della custodia del creato, poiché quel fondamentale sguardo creaturale ci insegna a riconoscere la fertilità non più come un ostacolo da rimuovere o combattere ma come un particolare della Creazione molto prezioso, ed oggi sempre più raro di fronte al numero crescente di coppie che soffrono d’infertilità.
In sintesi ho osservato come nei confronti dell’enciclica di Paolo VI si riscontrano tre posizioni: chi, come san Giovanni Paolo II, ne ha riconosciuto fin da subito la profeticità, chi invece ne reclama un’immediata archiviazione, chi infine sostiene la possibilità di una terza via interpretativa in chiave pastorale.
Nel terzo capitolo, dando voce ad alcune testimonianze, ho preso in esame l’opera aretina “Casa Betlemme”, inquadrandola tra le esperienze pastorali che, sparse per il mondo, danno attuazione all’enciclica Humanae vitae diffondendo la regolazione naturale della fertilità, la teologia del corpo e l’alfabetizzazione bioetica. Riconosciuta dall’allora vescovo Bassetti, è una singolare realtà di servizio che quest’anno compie mezzo secolo e nella quale vivo da vent’anni come sposa cristiana e biologa insegnante dei metodi naturali, insieme ad una fraternità di altre famiglie preparate. Siamo impegnati in un apostolato laico e moderno che Casa Betlemme porta avanti in rete con il livello accademico attraverso un proprio stile dove si coniugano azione e contemplazione, promuovendo un messaggio di armonia tra fede, scienza e cultura. Incontrando tante coppie, sia in diocesi che in giro per l’Italia, anche nella nostra esperienza la proposta dei metodi naturali ha portato frutti importanti: «in un’epoca in cui si parla di amore liquido, sperimentiamo che sono un contributo per la costruzione di famiglie solide» (Flora Gualdani). Nata per le opere di misericordia corporale, questa scuola di vita si è specializzata sempre di più in quelle di misericordia spirituale cioè “istruire gli ignoranti”, trasmettendo sapere e valori in risposta all’emergenza educativa. Si tratta di credere che ciascuno «in fondo al cuore avrà sempre la nostalgia del bene e del bello», e che «la Grazia esiste e aiuta gli umili». Dopo decenni di ambulatorio ostetrico, da lei definito un «confessionale laico», la fondatrice si è convinta che «la contraccezione è una proposta vecchia […] e il futuro è dei metodi naturali: da lì passa la qualità dell’amore e della generazione». Ha insegnato instancabilmente la teologia del corpo tanto alle persone sposate che a quelle consacrate, portando l’Humanae vitae fin dentro i monasteri, con risultati sorprendenti che meriterebbero ascolto.
Nel mio percorso di riflessione ho cercato di far emergere un concetto di fondo: la Chiesa, definita da Paolo VI “esperta di umanità”, proponendo la via dei metodi naturali ha semplicemente a cuore la vera felicità dell’uomo (cfr. Humanae vitae n. 31, Veritatis splendor n. 120 e Benedetto XVI a colloquio con i giovani, 6 aprile 2006). E’ consapevole che, evangelicamente, si tratta di una via stretta: alla portata di tutti ma praticata da pochi. Si tratta di una via esigente perché, spiegava Giovanni Paolo II ai giovani francesi nel 1980, «l’uomo può essere felice solo nella misura in cui è capace di accettare le esigenze che la propria umanità, la sua dignità d’uomo gli impongono».
Il significato autentico ed il valore sociale dei metodi naturali emergono con tutta la loro luce in un contesto attuale caratterizzato dalla disgregazione della famiglia, cui si collega anche una crisi dell’èros (Noriega): l’amore umano e l’incontro sessuale, spogliato prima della sua fecondità, poi della sua grandezza e del suo mistero, viene infatti spesso ridotto a puro scambio utilitaristico di piacere, di fronte al quale c’è chi invoca il ritorno ad una «mistica della carne» (il filosofo francese Hadjadj). Anche Zygmunt Bauman ha recentemente analizzato il degrado della relazione coniugale nella logica del consumismo sessuale. Paolo VI aveva già previsto tale «saturazione erotica» della società, una preoccupazione che confidò all’amico Jean Guitton nella sofferta firma dell’Humanae vitae. Lo stesso Max Horkeimer, fondatore della Scuola di Francoforte, pur provenendo dal marxismo dette ragione a questa enciclica contro «la morte dell’amore».
La tesi, in conclusione, intende mostrare che la regolazione naturale della fertilità, difendendo la famiglia e la grandezza dell’amore umano, è la via lungo la quale le persone si riconciliano con la propria corporeità e con il Creatore: un sentiero educativo in cui i giovani sono aiutati a divenire «veramente liberi e liberamente veri» (Caffarra). 

Nessun commento:

Posta un commento