Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

sabato 31 marzo 2012

Sabato della V settimana di Quaresima

Il Vangelo del Giorno



Solo un Dio che ci ama fino 
a prendere su di sé le nostre ferite e il nostro dolore,
soprattutto quello innocente,
è degno di fede.

Benedetto XVI, Pasqua 2006




Dal Vangelo secondo Giovanni 11,45-57.


Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di quel che egli aveva compiuto, credettero in lui. Ma alcuni andarono dai farisei e riferirono loro quel che Gesù aveva fatto. Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: «Che facciamo? Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione». Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno, disse loro: «Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera». Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo. Gesù pertanto non si faceva più vedere in pubblico tra i Giudei; egli si ritirò di là nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove si trattenne con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione andarono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi. Essi cercavano Gesù e stando nel tempio dicevano tra di loro: «Che ve ne pare? Non verrà egli alla festa?». Intanto i sommi sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunziasse, perché essi potessero prenderlo.




COMMENTO


Una profezia illumina il senso di tutta la vita e della missione di Gesù. Una profezia sorta dalle labbra di chi ne decreterà la morte. Caifa e le sue parole offrono il criterio per discernere e comprendere l'ingiustizia più grande. Il nemico risponde alla domanda più inquietante, quella che ha scosso il cuore di Gesù, la stessa che vibra nel nostro intimo: perchè? Perchè questa sofferenza, perchè questa ingiustizia? Perchè questo fallimento, questo tradimento, questa morte? Perchè il dolore degli innocenti? "Non esiste nessun interrogativo più incalzante per gli uomini" (Hans Urs Von Balthasar, Incontrare Cristo). Il Vangelo di oggi, come un tesoro che brilli all'aprirsi dello scrigno, ci rivela il segreto che colma di senso gli aspetti più bui della nostra esistenza. Proprio chi insidia la nostra vita, chi ha deciso di ucciderci, chi ci fa del male gratuitamente, proprio il nemico è il profeta che illumina di giustizia l'ingiustizia; le sue parole piene di rancore, invidia, gelosia e odio, quelle parole che decretano la nostra fine, l'oltraggio al nostro onore, che ci umiliano nell'insignificanza, proprio quelle parole svelano il senso nascosto nel male che si abbatte su di noi. Il mistero di un amore che si carica del peccato altrui, del male e della morte, per salvare, redimere, risuscitare. "Il mistero, nessun mistero quand'è tale, ossia quando procede dalla trascendenza di Dio che s'incontra con la finitezza dell'intelletto umano, «divarica» la coscienza: o la ragione si rifiuta e cade nell'ateismo cioè nel buio dell'apparente evidenza, e perciò contraddittoria, delle apparenze oppure sale con la fede nell'apertura della Verità incommutabile" (Cornelio Fabro).


Le labbra di Caifa dischiudono quest'apertura alla Verità incommutabile. Egli sussurra a Gesù il dovere da cui è afferrata la sua missione. Le parole di Caifa cercano e trovano quell'Uno solo che può salvare il Popolo e i Popoli di ogni tempo. La profezia di Caifa incontra l'ardente desiderio, la "santa concupiscenza" di Gesù di celebrare e compiere la sua Pasqua. L'astuzia politica, mondana, mista a gelosia, rancore, invidia del Sommo Sacerdote secondo la carne, intercettano la mitezza, la misericordia, l'amore dell'unico e autentico Sommo Sacerdote secondo lo Spirito: "A noi occorreva un tale Sommo Sacerdote: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori, elevato sopra i cieli... Cristo, apparso come Sommo Sacerdote dei beni futuri... non mediante il sangue di capri e vitelli, ma in virtù del proprio sangue entrò nel santuario una volta per tutte, ottenendo un riscatto eterno... quanto più il sangue di Cristo... purificherà la vostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivo!" (Eb. 7,26. 9,11-14). Il sangue di Gesù era proprio quello che occorreva per riunire i dispersi, perchè il Popolo potesse tornare a vivere la propria vocazione, quella per la quale era stato liberato dal giogo del Faraone: servire il Dio vivo! Il sangue di Gesù profetizzato da Caifa, voluto e ottenuto da Caifa.


E' il male stesso infatti che grida al bene di distruggerlo! E' il nemico che, uccidendo, implora alla sua vittima la grazia del perdono. Il male può solo lanciarsi verso la sua propria distruzione. Ma ha come bisogno di una roccia, di una barriera su cui infrangersi. E la trova in Cristo. Lo descrive magistralmente Peguy: "Ha ben saputo quel che faceva quel giorno, mio figlio che li ama tanto. Quando ha messo questa barriera fra loro e me. Padre nostro che sei nei cieli, queste tre o quattro parole. Questa barriera che la mia collera e forse la mia giustizia non supereranno mai. Beato chi s’addormenta sotto la protezione dei bastioni di queste tre o quattro parole" (C. Peguy, Il mistero dei santi innocenti). La missione del Figlio, quella di riunire ogni figlio disperso. Un solo Figlio perchè tutti tornino ad essere figli.


Per questo, nelle parole di Caifa risplende l'ultima profezia, quella decisiva. Essa riannoda il filo di tutte le altre profezie e, in poche, semplici parole che suonano come un ordine, illuminano il senso e il compimento della Storia della Salvezza. Ma i farisei e i sommi sacerdoti non avevano capito nulla, non avevano considerato bene i fatti. «Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera». Il testo originale greco ci aiuta a comprendere: non conoscevano e non calcolavano che proprio i segni compiuti da Gesù lo stavano consegnando alle loro mani per salvare la Nazione. Non entravano in relazione (conoscevano) con quegli accadimenti al punto di tradurli in una volontà che si facesse azione concreta (considerare). Conoscere, così come considerare, stimare, per un ebreo non è mai qualcosa di semplicemente intellettuale; ogni attività del pensiero è strettamente legata all'agire. In Dio parlare significa compiere. Caifa rimprovera i farisei e gli altri sacerdoti di non saper leggere gli avvenimenti per tradurli in un progetto e compierlo. Non sanno interpretare i segni per escogitare un piano di salvezza per la Nazione. La profezia infatti sorge proprio da questo: "Il profeta non è uno che predice l'avvenire... il profeta è colui che dice la verità perché è in contatto con Dio e cioè si tratta della verità valida per oggi che naturalmente illumina anche il futuro.. si tratta di rendere presente in quel momento la verità divina e di indicare il cammino da prendere. Di conseguenza la parola del profeta chiede, da una parte, di essere ascoltata e seguita, pur rimanendo parola umana, e dall'altra si appoggia alla fede e si inserisce nella struttura stessa del popolo di Israele, particolarmente in ciò che attende" (J. Ratzinger, da un'intervista a di Niels Christian Hvidt). Può sembrare scandaloso, ma Caifa ha parlato in nome di Dio, ha reso presente la verità divina e ha indicato il cammino da seguire. Ed è esattamente quello che i due verbi greci che compaiono nel testo significano. Nella profezia di Isaia "il Servo di Dio fu considerato (annoverato) fra i malfattori" (Is. 53,12), dove, nella traduzione greca dei LXX è usato lo stesso verbo pronunciato da Caifa. In questo passivo vi è la volontà di Dio, il "disegno", il "calcolo" di Dio che colpiva il Servo al posto nostro, per i nostri peccati! Dio aveva considerato bene di far ricadere su uno solo il peccato di molti: "Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti... ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori. (Is. 53). Ed è quanto, nel vangelo di Luca, Gesù annuncia circa la sua missione: "Perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori" (Lc. 22,37).


Così, quando appare Caifa nella nostra vita, occorre prestare ascolto alle sue parole. Sono la profezia che ci indica la verità divina e ci indica il cammino da seguire. Quando sull'orizzonte della nostra storia si profila l'ingiustizia ed il nemico si muove contro di noi, è il momento di ascoltare la Parola di Dio racchiusa in questi avvenimenti, pur rimanendo parola umana, nell'assurdo di un nemico che la incarna. Ma è una Parola che si appoggia alla fede e ci invita a guardare a quello che ci attende. L'ingiustizia, il nemico, il male, il dolore innocente ci profetizzano la Verità e ci mostrano il cammino che conduce al nostro autentico destino, come quello di ogni uomo. Nell'onda che ci viene incontro per travolgerci è sigillato il tesoro più prezioso, l'amore infinito di Dio che attende di farsi carne in noi per la salvezza di ogni uomo. Dobbiamo ammettere di non aver capito nulla e di non aver considerato la nostra esistenza. Non conosciamo, non accogliamo e facciamo nostra la storia che Dio ci dona, non calcoliamo le occasioni che essa ci offre. Deve compiersi in noi la stessa parola che ha dovuto compiersi in Gesù. Siamo frutto del suo riscatto, ogni nostra cellula, ogni nostro istante, tutto di noi è stato ed è bagnato dal suo sangue benedetto. Dispersi nei peccati, dissipati nei vizi, con le vite prive di senso, siamo stati riscattati dal suo amore, dalla sua vita offerta per tutti noi.


Morire perhypér, è questo il senso primo ed ultimo della nostra vita, il valore che la sostiene e la rende feconda. E di più, offrire la vita per molti è la fonte della gioia autentica; calcolare, considerare, riconoscere negli eventi che ci contrastano, nelle ingiustizie, nel volto del nemico, nel male che ci coinvolge, la volontà di Dio preparata perchè la nostra vita dia frutto. Così ogni istante, ogni evento, ogni persona custodisce per noi la stessa profezia di Caifa. Il dolore innocente, non quello che ci coinvolge quale conseguenza dei nostri peccati, ma quello che scaturisce dalla banalità del male, trova nelle parole del Sommo Sacerdote il senso nascosto che solo la fede è capace di decifrare. La fede che nasce dall'esperienza, nella propria vita, del senso che ha avuto il sacrificio di Gesù, l'innocente che ha attirato su di sé il castigo diretto a noi colpevoli. "Ecco cosa ha raccontato loro mio figlio. Mio figlio ha svelato loro il segreto del giudizio stesso E adesso ecco come mi sembrano; ecco come li vedo; Ecco come sono obbligato a vederli... E davanti allo sguardo della mia collera e davanti allo sguardo della mia giustizia. Si sono tutti nascosti dietro di lui (C. Peguy, Il mistero dei santi innocenti). Ci siamo nascosti dietro le braccia distese del Figlio crocifisso, e da lì dietro, abbiamo incontrato lo sguardo misericordioso del Padre. Questa esperienza ci conduce a conoscere e a calcolare secondo Dio, con il suo stesso sguardo ogni evento, e a diventare, uniti a Cristo, un segno del suo amore infinito: "È una grazia per chi conosce Dio subire afflizioni, soffrendo ingiustamente; che gloria sarebbe infatti sopportare il castigo se avete mancato? Ma se facendo il bene sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme; egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca, oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore ma ora siete tornati al pastore, e guardiano delle vostre anime" (1 Pt. 2, 21-25).


Nell'offerta di Cristo, nella sua consegna per tutti gli uomini, nel compimento misterioso di questo amore attraverso i secoli nei martiri noti e sconosciuti, nelle piaghe della Chiesa Corpo di Cristo che si carica con il peccato del mondo, nell'interminabile teoria dei piccoli fratelli e discepoli di Gesù che, silenziosamente, recano impresse le stigmate del Servo di Yahwè, ogni dolore innocente ritrova il suo senso. Nell'innocenza del Figlio consegnato alla morte, ogni sangue innocente diviene il tesoro più prezioso che vi sia su questa terra. In esso è racchiuso il sangue di Cristo, che, con ogni innocente porta sulle spalle e nella carne il peccato delle generazioni, per condurre ogni uomo al Cielo. "Che mistero la sofferenza di tanti innocenti che portano su di sé il peccato di altri, l’incesto, una violenza inaudita; quella fila di donne e bambini nudi verso la camera a gas, e quel dolore profondo di uno dei guardiani che dentro al suo cuore sentiva una voce: mettiti nella fila, e va con loro alla morte; e non sapeva da dove gli veniva… Dicono che dopo l’orrore di Auschwitz non si può più credere in Dio. No! Non è vero, Dio si è fatto uomo per prendersi Lui la sofferenza di tutti gli innocenti. È Lui l’innocente totale, l’agnello condotto al macello senza aprire bocca, colui che porta su di sé i peccati di tutti" (Kiko Arguello).




C. Peguy. Da Il mistero dei santi innocenti.


Io sono il loro padre, dice Dio. Padre nostro, che sei nei cieli.
Mio figlio l’ha detto loro abbastanza, che sono il loro padre.
Io sono il loro giudice. Mio figlio l’ha detto loro. Sono anche
il loro padre.
Sono soprattutto il loro padre.
Infine sono il loro padre. Colui che è padre è soprattutto padre.
Padre nostro che sei nei Cieli. Colui che è stato una volta padre
non può più essere che padre.
Essi sono i fratelli di mio figlio; sono miei figli; sono il loro
padre.
ha ben saputo quel che faceva quel giorno, mio figlio che li amava tanto.
Che ha vissuto tra di loro, che era uno come loro.
Che andava come loro, che parlava come loro, che viveva come loro.
Che soffriva.
Che soffrì come loro, che morì come loro.
E che li ama tanto dopo averli conosciuti.
Che ha riportato nel cielo un certo gusto dell’uomo, un certo
gusto della terra.
Mio figlio che li ha tanto amati, che li ama eternamente nel
cielo.
Ha ben saputo quel che faceva quel giorno, mio figlio che li ama tanto.
Quando ha messo questa barriera fra loro e me. Padre nostro
che sei nei cieli, queste tre o quattro parole.
Questa barriera che la mia collera e forse la mia giustizia non
supereranno mai.
Beato chi s’addormenta sotto la protezione dei bastioni di queste
tre o quattro parole.
Queste parole che camminano davanti a ogni preghiera come
le mani di chi supplica camminano davanti alla sua faccia.
Come le due mani giunte di chi supplica avanzano davanti alla
sua faccia e alle lacrime della sua faccia.
Queste tre o quattro parole che mi vincono, me, l’invincibile.
E che loro fanno venire davanti alla loro miseria come due
mani giunte invincibili.
Queste tre o quattro parole che s’avanzano come un bello
sperone davanti a una povera nave.
E che fendono l’onda della mia collera.
E quando lo sperone è passato, la nave passa, e dietro tutta la flotta.
Adesso, dice Dio, è così che li vedo;
E per tutta l’eternità, eternamente, dice Dio.
Per questa invenzione di mio Figlio eternamente è così che
bisogna che io li veda.
(E che bisogna che io li giudichi. Come volete, adesso, che io
li giudichi?
Dopo di questo.)
Padre nostro che sei nei cieli, mio figlio ha saputo sbrigarsela
molto bene.
Per legare le braccia della mia giustizia e per slegare le braccia
della mia misericordia.
(Non parlo della mia collera, che non è mai stata altro che la mia giustizia.
E qualche volta la mia carità.)
E adesso bisogna che io li giudichi come un padre. Per quel
che può giudicare, un padre. Un uomo aveva due figli.
Per quel che è capace di giudicare. Un uomo aveva due figli.
Si sa bene come giudica un padre. Ce n’è un esempio ben
noto.
Si sa bene come il padre ha giudicato il figlio che se n’era
andato e che è ritornato.
Era ancora il padre che piangeva di più.
Ecco cosa ha raccontato loro mio figlio. Mio figlio ha svelato
loro il segreto del giudizio stesso.
E adesso ecco come mi sembrano; ecco come li vedo;
Ecco come sono obbligato a vederli.
Come la scia di un bel vascello va allargandosi fino a sparire
e a perdersi.
Ma comincia con una punta, che è la punta stessa del vascello.
Così la scia immensa dei peccatori s’allarga fino a sparire e a
perdersi.
Ma comincia con una punta, ed è questa punta che viene verso di me,
Che è volta verso di me.
Comincia con una punta, che è la punta stessa del vascello.
E il vascello è il mio stesso figlio, carico di tutti i peccati del
mondo.
E la punta del vascello son le due mani giunte di mio figlio.
E davanti allo sguardo della mia collera e davanti allo sguardo
della mia giustizia
Si sono tutti nascosti dietro di lui.
E tutto quest’immenso corteo di preghiere, tutta questa scia
immensa s’allarga fino a sparire e a perdersi.
Ma comincia con una punta ed è questa punta che è volta
verso di me.
Che avanza verso di me.
E questa punta sono queste tre o quattro parole: Padre nostro,
che sei nei cieli; mio figlio in verità sapeva quello che faceva.
E ogni preghiera sale a me nascosta dietro queste tre o quattro parole.




San Leone Magno ( ?-circa 461), papa e dottore della Chiesa Discorso 8 sulla Passione del Signore, 7 ; SC 74 bis, 115


« Per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi »


«Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). O mirabile potenza della croce! O ineffabile gloria della Passione, che racchiude in sé il tribunale del Signore, il giudizio del mondo e la potenza del crocifisso. Hai attirato davvero ogni cosa a te, Signore, e mentre stendevi tutto il giorno le mani verso il popolo che non credeva e ti scherniva (Is 65,2), donavi a tutto il mondo di intendere e proclamare la tua maestà. Hai attirato ogni cosa a te, Signore, quando... tutti gli elementi del creato pronunciarono un'unica sentenza... e ogni creatura negò agli empi il suo servizio (Mt 27,5s)... Hai attirato ogni cosa a te, Signore, affinché, quello che si compiva nell'unico tempio di Gerusalemme sotto il velo dei segni, fosse celebrato dovunque nella pienezza e l'evidenza del sacramento, dalla devozione di tutte le genti... Poiché la tua croce è la fonte di ogni benedizione, la causa di ogni grazia: per suo mezzo, vien data ai fedeli la forza nella sofferenza, la gloria nell'umiliazione, la vita nella morte. Ora poi, essendo venuta meno la verità dei sacrifici materiali, l'unica oblazione del tuo corpo e del tuo sangue sostituisce con pienezza l'offerta molteplice delle vittime: poiché sei tu il vero «Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo» (Gv 1,29). E così, in te porti a compimento tutti i misteri e le celebrazioni rituali, affinché, come uno solo è il sacrificio per ogni vittima, così pure uno sia il regno formato da tutti i popoli.




Ruperto di Deutz (circa 1075-1130), monaco benedettino
Commento sul Vangelo di Giovanni, libro 10 ; PL 169, 646 ss.


« Per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi »


«Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: ’Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera.’ Questo però non lo disse da se stesso...»
Cosa significano queste parole: «Questo non lo disse da se stesso» se non che Caifa non traeva questa parola dal suo spirito? In verità, prima che Caifa fosse, già era stata pronunciata questa parola: «Gesù deve morire per il popolo». Sì, questa parola era stata rivelata ai santi profeti, anzi era stata pronunciata prima che i profeti fossero venuti al mondo, prima che Abramo avesse ricevuto l’esistenza, prima che Adamo fosse stato plasmato. Questa parola era già nella volontà del Padre quando dichiarò: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» (Gen 1,26). Fu detto allora che Gesù doveva morire per il popolo.
Caifa non disse dunque questo di sua iniziativa. Ma «poiché era sommo sacerdote in quell’anno, profetizzò.» E che cosa? ... Che occorreva che uno solo, un solo uomo, il Santo dei santi, il Sole di giustizia, Gesù Cristo, morisse per il popolo, e non soltanto per il popolo nato da Abramo, ma anche per tutti coloro che Dio aveva predestinati, fin dalla creazione del mondo, ad essere suoi figli adottivi (cfr Ef 1,5). Erano stati scacciati fuori dal Paradiso originale e dispersi ai quattro venti del mondo; occorreva radunarli da tutta la massa dell’umanità, fino all’ultimo eletto.




San Cirillo d'Alessandria (380-444), vescovo e dottore della Chiesa
Commento sulla lettera ai Romani , Cap. 15, 17 (trad. dal breviario)


«Per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi»


In molti formiamo un solo corpo e siamo membra gli uni degli altri (Rm 12, 5), stringendoci Cristo nell'unità con il legame della carità, come sta scritto: « Egli è colui che ha fatto di due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, annulando la legge fatta di prescrizioni e di decreti « (Ef 2, 14). Bisogna dunque che tutti abbiamo gli stessi sentimenti. Se un membro soffre, tutte le membra ne soffrano e se un membro viene onorato, tutte la membra gioiscano (1 Cor 12, 26). « Perciò accoglietevi «, dice, « gli uni gli altri, come Cristo accolse voi per la gloria di Dio « (Rm 15, 7). Ci accoglieremo vicendevolmente se cercheremo di aver gli stessi sentimenti, sopportando l'uno il peso dell'altro e conservando « l'unità dello spirito nel vincolo della pace « (Ef 4, 2-3). Allo stesso modo Dio ha accolto anche noi in Cristo. Infatti è veritiero colui che disse: Dio ha tanto amato il mondo da dare per noi il Figlio suo (cfr. Gv 3, 16). Cristo fu sacrificato per la vita di tutti e tutti siamo stati trasferiti dalla morte alla vita e redenti dalla morte e dal peccato.
Cristo si è fatto ministro dei circoncisi per dimostrare la fedeltà di Dio. Infatti Dio aveva promesso ai progenitori degli Ebrei che avrebbe benedetto lq loro discendenza e l'avrebbe moltiplicata come le stelle del cielo. Per questo Dio, il Verbo che crea e conserva ogni cosa creata e dà a tutti la sua salvezza divina, si fece uomo e apparve visibilmente come tale. Venne in questo mondo, nella carne non per farsi servire, ma piuttosto, come dice egli stesso, per servire e dare la sua vita a redenzione di tutti (Mc 10, 45).

venerdì 30 marzo 2012

Settimana Santa " approfondimenti "

Preghiera del mattino
Al cominciar del giorno, Dio, ti chiamo.
Aiutami a pregare e a raccogliere i miei pensieri su di te;
da solo non sono capace.
C'è buio in me, in Te invece c'è luce;
sono solo, ma tu non m'abbandoni;
non ho coraggio, ma Tu mi sei d'aiuto;
sono inquieto, ma in Te c'è la pace;
c'è amarezza in me, in Te pazienza;
non capisco le tue vie,
ma tu sai qual è la mia strada.
Padre del cielo,
siano lode e grazie a Te
per la quiete della notte,
siano lode e grazie a Te
per il nuovo giorno.
Signore,
qualunque cosa rechi questo giorno,
il tuo nome sia lodato! Amen.

(Dietrich Bonhoeffer)

Giro a tutti gli auguri arrivati da
 Maria Caterina Muggiano che
 puntualmente ci aggiorna sui messaggi di 
Medjugorie della Regina della Pace

Venerdì della V settimana di Quaresima

 Il Vangelo del Giorno 
ICONE

“La salvezza è nel ricordo”


Baal Shem Tov
(Israel ben Eliezerfondatore del movimento ebraico del Chassidismo moderno:
l'appellativo Baal Shem Tov significa Maestro del nome di Dio.)


Gv. 10, 31-42

I Giudei portarono di nuovo delle pietre per lapidarlo. Gesù rispose loro: «Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre mio; per quale di esse mi volete lapidare?». Gli risposero i Giudei: «Non ti lapidiamo per un'opera buona, ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio». Rispose loro Gesù: «Non è forse scritto nella vostra Legge: Io ho detto: voi siete dei? Ora, se essa ha chiamato dei coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio (e la Scrittura non può essere annullata), a colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo, voi dite: Tu bestemmi, perché ho detto: Sono Figlio di Dio? Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre». Cercavano allora di prenderlo di nuovo, ma egli sfuggì dalle loro mani. Ritornò quindi al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava, e qui si fermò. Molti andarono da lui e dicevano: «Giovanni non ha fatto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero». E in quel luogo molti credettero in lui. 


IL COMMENTO




C'è un luogo dove credere in Gesù. Il luogo dove si Gesù si ferma, dove lo si può incontrare, conoscere e credere in Lui. Quel luogo è l'annuncio. E' l'evangelizzazione. Essa è come il battesimo di Giovanni, è l'acqua che ci viene donata per la conversione. Il "
luogo dove prima Giovanni battezzava". Non è un luogo clericale, non è il luogo dove pontificano gli pseudo-religiosi, i legalisti, i moralisti. Dove, nel nostro cuore, vi sono questi sentimenti, non vi è posto per Gesù. Dove c'è lo scandalo per il suo amore crocifisso, l'incapacità demoniaca di ascoltare le Sue parole, il rifiuto della sua misericordia inerme capace di farsi peccato, lì ci sono mani che stringono pietre per colpire e cancellare il grido d'amore che squarcia le nostre false certezze. Dove noi ci facciamo dio e seppelliamo Dio che si fa come noi.

Gesù, al culmine della sua missione, sperimenta l'apice del rifiuto. E' il segno che la missione è andata in porto: una sua Parola ha svelato il cuore dei giudei, come il cuore di ogni uomo. Lui è il Figlio di Dio, Lui è Dio! Non sono le opere, i miracoli a decretare, in ultima istanza, la sua morte. Le pietre sono preparate per la sua parola blasfema: "Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare" (Lv. 24,16). I giudei, come ciascuno di noi, guardando, sperimentando le opere non sanno riconoscerne l'autore, e lo scambiano per un bestemmiatore. Perchè, in definitiva, la mia vita di oggi è una bestemmia: la sofferenza, il fallimento, queste ore qui rinchiuse nello sconforto, sono una parola blasfema, non può Dio volere e permettere tutto quanto mi accade; e chi afferma e annuncia che proprio nella mia vita è Dio ad operare, che la mia storia è un segno dell'amore del Padre, è un bestemmiatore. Chi mi dice che sono figlio di Dio in questa storia qua merita la morte. E uccidiamo i profeti, e togliamo di mezzo Cristo, qualunque sua memoria, il prossimo nel quale è presente. "La grande tentazione dell’uomo è esaurire l’esperienza del segno, di una cosa che è segno, interpretandola soltanto nel suo aspetto percettivamente immediato. Non è ragionevole, ma tutti gli uomini sono portati, dalla pesantezza su di essi del peccato originale, ad essere vittime dell’apparente, di ciò che appare, perché sembra la forma più facile della ragione" (L. Giussani, L’uomo e il suo destino. In cammino).


Per questo occorre rinnegare se stessi, uscire dall'accampamento, scendere dai troni dell'orgoglio ed arrendersi all'amore. Gesù, di fronte all'incredulità, al rifiuto "intelligente" dei giudei, si ritira al di là del Giordano, al luogo dove è sceso su di Lui lo Spirito Santo, dove il Padre lo ha rivelato quale suo Figlio diletto. Gesù ha assunto su di sè il dolore del rifiuto, la durezza di cuore di fronte alle opere belle del suo amore. Al punto di ridiscendere alla fonte della sua missione per ritrovare vigore e forza per l'opera decisiva, la Passione di amore che lo condurrà sulla Croce. E' il cammino che indica a ciascuno di noi: il cammino per combattere la falsa illusione delle apparenze, l'atrofia dell'intelligenza che non vuole andare oltre e rischiare per abbandonarsi ad un amore più grande di quello di cui noi siamo capaci. Gesù oggi ci indica il percorso dell'umiltà, discendere ancora una volta i gradini del battesimo, immergere ancora una volta nell'acqua che ci ha rigenerato annegando l'uomo vecchio con le sue passioni. Passare dalla memoria al memoriale, dal ricordo che schiaccia il presente sui nostri criteri avvelenando il futuro, alla libertà che accoglie la storia d'amore di Dio con ciascuno di noi, perchè le sue opere si compiano ancora. Sono esse a mostrarci il volto del Padre; la loro dimenticanza, il filtro della nostra povera ragione ad interpretarle come pura casualità, chiude le porte al potere di Dio.

Occorre ascoltare. E' nell'ascolto che riceviamo la fede, è l'ascolto che ci salva. E' la stoltezza della predicazione il luogo dove Gesù è e dove anche ciascuno di noi può essere. Ecco l'opera di Dio, la fede in noi donata attraverso la predicazione.


San Bernardo (1091-1153), monaco cistercense e dottore della Chiesa
Discorsi vari, n° 22, 5-6


« Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre mio; per quale di queste mi volete lapidare ? »

A Cristo Gesù devi tutta la tua vita, poiché ha dato la sua vita per la tua vita, e ha sopportato tormenti amarissimi affinché tu non sopportassi tormenti eterni... Cosa non ti sembrerà dolce quando avrai raccolto nel tuo cuore tutte le amarezze sopportate dal tuo Signore?... “Quanto il cielo sovrasta la terra” (Is 55,9), tanto la sua vita sovrasta la nostra vita, eppure essa è stata data per la nostra vita. Quanto il nulla non può essere paragonato a nessun’altra cosa, tanto la nostra vita è sproporzionata con la sua...

Anche quando gli avessi consacrato tutto quello che sono, tutto quello che posso, questo sarà ancora come una stella in confronto al sole, una goccia in confronto a un fiume, una pietra rispetto ad una torre, un granellino di sabbia rispetto ad un monte. Non ho altro che due cose piccole, anzi molto minute: il mio corpo e la mia anima, o piuttosto una sola piccola cosa: la mia volontà. E non la darei forse a colui che ha colmato con tanti benefici un essere così piccolo come sono io, a colui che, donando tutto se stesso, mi ha riscattato per intero? Altrimenti, se tenessi per me la mia volontà, con quale viso, con quali occhi, con quale spirito, con quale coscienza andrei a rifugiarmi presso il cuore della misericordia di Dio? Oserei trafiggere quel baluardo fortissimo che custodisce Israele, e fare colare come prezzo del mio riscatto, non qualche goccia, ma fiumi di quel sangue che sgorga dai cinque parti del suo corpo?

mercoledì 28 marzo 2012

Giovedì della V settimana di Quaresima

Da "Il Vangelo del Giorno" di Don Antonello Iapicca


Abramo ed Isacco. Marc Chagall

L’espressione "vita eterna" non significa 
la vita che viene dopo la morte,
mentre la vita attuale è appunto passeggera e non una vita eterna.
"Vita eterna" significa la vita stessa, 
la vita vera,
che può essere vissuta anche nel tempo
e che poi non viene più contestata dalla morte fisica.
È ciò che interessa: 
abbracciare già fin d’ora la "vita"
la vita vera,
che non può più essere distrutta da niente e da nessuno.

J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, volume II



Gv 8,51-59

In quel tempo, disse Gesù ai Giudei: “In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte”.
Gli dissero i Giudei: “Ora sappiamo che hai un demonio. Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: ‘‘Chi osserva la mia parola non conoscerà mai la morte’’. Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti; chi pretendi di essere?”.
Rispose Gesù: “Se io glorificassi me stesso, la mia gloria non sarebbe nulla; chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: ‘‘È nostro Dio!’’, e non lo conoscete. Io invece lo conosco. E se dicessi che non lo conosco, sarei come voi, un mentitore; ma lo conosco e osservo la sua parola. Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò”.
Gli dissero allora i Giudei: “Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo?”. Rispose loro Gesù: “In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono”.
Allora raccolsero pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio.

IL COMMENTO

Chi pretendi di essere?”. Quante volte nella nostra vita ricorre questa domanda. Spesso ben celata dietro maschere religiose, altre volte brutalmente espressa nell’incapacità di accettare l’evidenza dei propri limiti. La morte esiste. E Qualcuno, anche oggi, pretende di annunciare che una semplice Parola è capace di vincere la morte. Il padre stesso della fede è morto, accidenti, e ora basterebbe una Parola? Per di più di un povero Galileo che ha tutto dell’indemoniato? Questo Vangelo è 
molto profondo e tocca un punto sensibile in ciascuno di noi: tocca la nostra fede, il nostro modo di aver fede, lo contesta e lo frantuma. Se ci lasciamo giudicare dalla Verità, correggere come figli dalle parole di Gesù, potremo sperimentare la gioia, quella vera che non scappa dalle mani, la gioia esultante di Abramo.

Gesù si rivolge ai giudei che hanno creduto in Lui nel contesto di quella che, nel giudaismo dopo l’esilio era chiamata semplicemente Ha-Dhag – La Festa, Sukkot, la Festa delle Capanne. La gioia di Abramo nel vedere il giorno di Gesù, la Parola che, custodita, preserva dal gustare la morte, la Gloria del Padre che rivela l'identità umana e divina di Gesù. Occorre leggere tutto ciò nel contesto della Festa delle Capanne, accanto alla tradizione ebraica riguardante la figura di Abramo.

Sukkot prevedeva una settimana intera di festeggiamenti all'insegna della gioia, che esplodeva nell'ultimo giorno. Le cronache dell'epoca raccontano di grandi feste popolari svolte nei cortili del Tempio, che si affollavano di pellegrini che agitavano il lulavOvunque a Gerusalemme si cantavano salmi e canti popolari. La Mishnà afferma che "chi non ha assistito a questa festa ignora cosa sia una festa". Sukkot, la gioia è unita alla precarietà delle tende, che chiama ciascuno ad andare all'essenziale, alla Torah - che proprio nel deserto venne donata per poter «scegliere la vita» (cfr Dt 30,1ss.).

La gioia era legata alla luce e all'acqua, elementi fondamentali per la vita. La Torah, fonte della gioia, è spesso paragonata a questi due elementi. Nella festa di Sukkot essi si fondevano, e Gesù li ha raccolti mostrando di esserne il compimento.


Al termine del primo giorno, "i Sacerdoti e i Leviti - scendevano nell'atrio del Tempio riservato alle donne e vi facevano dei grandi preparativi... Le persone più religiose e più illustri danzavano davanti alla folla con in mano delle fiaccole ardenti e recitando Salmi e Inni» (Talmud Babilonese, Sukkah, 51b). Il Tempio era illuminato grandiosamente. Secondo la Mishnah, quattro candelabri giganteschi alti più di venti metri erano posti all'interno del cortile delle donne. Ciascun candelabro era rivestito in oro ed aveva quattro braccia. Sedici fiamme illuminavano Gerusalemme dalla collina più alta dove sorgeva il Tempio. I Leviti suonavano i loro strumenti innescando la gioia. La luce ricordava al Popolo la Gloria di Dio che aveva preso dimora del Tempio. Nel tempo in cui Salomone edificò il primo tempio, fu proprio a Sukkot che la gloria della Shekinah scese su di esso. Gesù, presente nel Tempio durante la Festa rivela che con Lui è giunta nel mondo la Luce vera, quella che illumina ogni uomo. Camminare nella sua luce, seguirlo come discepoli, significherà non inciampare più nella morte, perchè "lo splendore del Re ha vinto le tenebre" (Preconio Pasquale). Nella notte dell'umanità è brillata la Luce che non conosce tramonto, in Gesù le notti dell'Antico Testamento che profetizzavano la notte delle notti ha incontrato la Luce che dissipa ogni tenebra, la luce della Pasqua.

Il settimo giorno della festa è noto come Hoshana RabbaSukkot era una festa che celebrava l’ultimo raccolto dell’anno ringraziando Dio e supplicandolo per la pioggia nell'anno a venire. L’acqua aveva un ruolo fondamentale nella Festa delle Capanne. Prima della festa i rabbini ammaestravano il Popolo sui passi della Scrittura riguardanti l'acqua. Uno di essi era letto anche dal Sommo Sacerdote: "In quel giorno dirai: "Io ti lodo, Signore! Dopo esserti adirato con me, la tua ira si è calmata, e tu mi hai consolato. Ecco, Dio è la mia salvezza; io avrò fiducia, e non avrò paura di nulla; poiché il Signore è la mia forza e il mio cantico; egli è stato la mia salvezza». Voi attingerete con gioia l'acqua dalle fonti della salvezza. Abitante di Sion, grida, esulta, poiché il Santo d'Israele è grande in mezzo a te" (Is. 12, 1ss). L'originale tradotto con salvezza è Yesuah, Gesù! Nell'ultimo giorno della Festa, quando l'acqua scorreva a fiumi e la gioia era giunta al suo apice, Gesù grida con tutta la forza che è proprio Lui quell'acqua viva cui ogni uomo anela. Dal suo seno sgorgheranno fiumi di acqua capace di dissetare, come una sorgente che zampilli sino alla vita eterna; Lui compie quanto promesso alla donna samaritana e ai figli di Abramo: ogni pensiero, ogni fatica, ogni dolore, troveranno in Lui compimento e senso. Il raccolto della vita sarà abbondante, trabocchevole, perchè mayim ḥayim, l'acqua viva, lo Spirito di Colui che ha vinto la morte, scenderà copioso ad irrigare la terra, immagine dell'esistenza di ciascun uomo. E' Lui la salvezza, Gesù, "Dio che salva" dalla morte e dona, senza limiti, il suo stesso alito di vita, la fonte dell'esultanza senza fine.

Al termine della Festa ci si congedava con le seguenti parole del Salmo 128: «Ti benedica JHWH da Sion e possa tu vedere la felicità di Gerusalemme tutti i giorni della tua vitapossa tu vedere i figli dei tuoi figli, pace su Israele» (Sal 128,5-6). Questa benedizione è scesa su Abramo, che ha visto la felicità di Gerusalemme, il cuore della Terra a lui promessa, e ha visto i figli dei suoi figli, la posterità da lui generata, la discendenza sorta da Isacco, il figlio a lui promesso. Non una sola parola annunciata da Dio è andata dispersa: in Cristo Abramo ha visto la Gerusalemme celeste ed eterna scendere e accogliere la Gerusalemme terrena; in Lui ha visto moltiplicarsi, per l'eternità, la discendenza scaturita dai suoi fianchi. Abramo ha visto la gioia.

Secondo una tradizione rabbinica Abramo aveva conosciuto Dio a quarantotto anni. Secondo la simbolica biblica sette per sette è il compimento, quindi Abramo ha conosciuto Dio sulla soglia del compimento della sua vita. La Parola ascoltata lo ha introdotto nella pienezza. La vita di Abramo era in attesa di qualcosa, di qualcuno capace di strapparlo dalla morte incipiente, dal carico di fallimento che gravava sui suoi giorni. Non aveva un figlio cui donare se stesso in eredità, non aveva una terra cui consegnare il suo corpo al riposo. Abramo era sulla soglia della morte; ma proprio qui la Parola di Dio ha trasformato quell'al di là di morte in un futuro colmo di vita. Dio si è fatto presente sul confine drammatico tra morte e vita. Qui Abramo ha cominciato a vedere il giorno di Gesù.

Poi, il compimento della promessa, e quel giorno del Messia si faceva più nitido, la gioia cresceva. Abramo aveva sperimentato sino ad allora tutto quello che la Festa delle Capanne significava: aveva visto la luce della vita brillare nella notte del fallimento, aveva danzato e gioito all'udire la Parola di speranza; aveva dimorato nella precarietà, in attesa della manna, camminando appoggiato alla sola Parola ricevuta; aveva accolto in sè la pioggia abbondante della fertilità, e quell'acqua di vita aveva dischiuso il seno sterile di Sara. Finalmente, stringeva tra le braccia Isacco, la vita stessa scaturita dalla sua carne morta. Ma, era questo il giorno di Gesù nel quale rallegrarsi? Abramo, come il Popolo, gustava la gioia, faceva festa, ma non era ancora quello il giorno del Messia. Egli avrebbe sconvolto ogni attesa, facendo di ogni esperienza una profezia di qualcosa immensamente più grande. Abramo aveva pregustato il potere di una Parola più forte della morte, e custodiva, come Maria, quell'evento prodigioso. Kierkegaard, a proposito di Abramo, scriveva: “Ciascuno diventa grande in rapporto alla sua attesa; uno diventa grande con l’attendere il possibile, un altro con l’attendere l’eterno, ma colui che attese l’impossibile, divenne più grande di tutti”. Ad Abramo mancava qualcosa, mancava l'impossibile che aveva intuito potersi compiere sin dal primo momento in cui aveva ascoltato la voce di Dio. Mancava la prova decisiva, l'amore pieno e incondizionato. Mancava la notte più dura nella quale vedere la luce della Pasqua, il giorno eterno del Messia Gesù. Mancavano quell'angoscia, quel dolore, quell'assurdo che tutto strappa, che scuote ogni certezza; mancava la notte oscura della fede.

Ed è giunta per Abramo l'onda travolgente dello Tsunami. Il nomade Abramo si trovava proprio come al culmine della Festa delle Capanne, quando l'aqua scorre a fiumi. Era infatti presso il pozzo di Bersabea, nel territorio dei Filistei; i suoi piedi calcavano la Terra che Dio gli aveva promesso, guardava Isacco e "invocò il nome del Signore, Dio dell’eternità” (Gen 21,33), al colmo della gioia per le grazie che Dio gli aveva concesso. E in questo luogo di festa, "Dio mise alla prova Abramo e gli disse: 'Abramo!'. Rispose: 'Eccomi!'. Riprese: 'Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò'" (Gen 22, 1-2). Una lancia nel cuore, identica a quella che ha trafitto l'anima di Maria. Il tesoro più grande, la sua stessa vita. Quella vita che Dio gli aveva donato, ora se la voleva riprendere. Come se nel bel mezzo della festa di Sukkot fosse disceso Dio ordinando di ritornare in Egitto e perdere tutto quanto costituiva la ragione della gioia.

La mishnah afferma: «Dieci prove ebbe a subire Abramo nostro padre e resistette a tutte, e ciò fa conoscere quanto fosse grande l’amore di Abramo nostro padre» (Avot 5:3). Il Talmud Babilonia, (Trattato Sanhedrin 89b), descrive così la decima tentazione di Abramo:

Sulla strada [per il paese di Moriah] Satana venne a lui [da Abramo] e gli disse: “Se provassimo a dirti una parola ti darebbe fastidio?... Ecco tu ne hai ammaestrati molti, hai fortificato le mani stanche; le tue parole hanno rialzato chi stava cadendo, hai raffermato le ginocchia vacillanti; e ora che il male piomba su di te, tu ti lasci abbattere; ora che è giunto fino a te, sei tutto smarrito” (Giob.4:2-5). Egli rispose: “io cammino nella mia integrità» (Sal.26:1). “Ma”, gli disse [Satana]: “la tua pietà non è forse la tua fiducia?” (Giob.4:6). “Ricordati”, egli continuò, “quale innocente perì mai?” (Giob.4:7). Vedendo che lui [Abramo] non lo ascoltava, gli disse: «Una parola mi è furtivamente giunta (Giob.4:12): ho ascoltato da dietro la Cortina [cioè, dai segreti più intimi di Dio], l’agnello per un olocausto (Giob.4:7), ma non Isacco per un olocausto”. Egli rispose: “è la punizione di un bugiardo quella che se anche dovesse dire la verità non sarà ascoltato”».

Salendo il Monte Moria Abramo ha dovuto subire la tentazione più grande, quella di dubitare di Dio dinanzi all'assurdo che lo afferrava fin nelle viscere. In questo racconto emergono in filigrana le tentazioni di Gesù, ma anche le parole a Lui pronunciate qualche momento prima il dialogo del Vangelo di oggi, quelle riguardanti il demonio, vero padre dei giudei che avevano creduto in lui. Anch'essi dovevano passare dalla schiavitù alla libertà, dal segno alla verità; avevano creduto ma erano ancora preda della carne, attaccati a quanto avevano ricevuto da Dio come un dono e che avevano trasformato in un possesso orgoglioso, come satana loro padre. Dovevano ascoltare sino in fondo Gesù per conoscere la Verità, il Padre che ama davvero e libera dalla morte e dal peccato, e rinnegare il padre della menzogna che rende schiavi. Come Abramo dovevano abbandonare la propria vita alla Parola fatta carne, a quell'uomo che credevano sapere donde venisse e invece non conoscevano. Dovevano consegnare se stessi a quell'uomo che era Dio. E incamminarsi verso il nuovo Moria, il Golgota dove sperimentare la provvidenza di Dio in quell'Agnello che vi offriva la vita. Dovevano abbandonare ogni giustizia umana, per accogliere la "pretesa" di Gesù, la giustizia celeste, l'amore fatto Parola eterna più forte del peccato e della morte. 

Come Abramo, per non assaporare la morte, dovevano imparare a custodire la parola, secondo il significato della parola osservare nell'originale greco. Custodire vuol dire infatti avere qualcosa di prezioso, amarlo, e legare ad esso la propria vita, le proprie energie, il proprio tempo. Sorvegliare, proteggere, amare la Parola. Come Abramo e come i giudei anche noi siamo chiamati, attraverso le vicende della nostra vita, quando tutto sembra perduto, ad imparare ad amare la Parola, Cristo, più d'ogni altra cosa. L'amore autentico è l'amore puro e disinteressato, ed esso passa sempre per il Moria, per l'esperienza che il frutto di questo amore è la provvidenza di Dio, il giorno di Gesù, la vita oltre la morte. La Grazia di questo amore, il dono di questa consegna totale che spoglia per colmare, passa per il sacrificio di Isacco, per la prova più dura. Essa stessa è l'anticipo della Grazia più grande, la libertà totale e incondizionata che si fa obbedienza colma di amore. Per giungere a vivere come Santa Teresa d'Avila: "Se ti amo, o mio Tesoro, non è per il Cielo che mi hai promesso. Se temo di offenderti, non è per l’inferno di cui sono minacciato. Quel che mi attira a te, sei tu, tu solo: è vederti inchiodato sulla croce, col corpo straziato, in agonia di morte. E il tuo amore si è talmente impadronito del mio cuore che anche se il Paradiso non esistesse, ti amerei lo stesso; se non esistesse l’inferno ti temerei ugualmente. Tu nulla hai da promettermi, nulla da darmi per provocare il mio amore: quand’anche non sperassi quel che spero, ti amerei come ti amo".

Racconta un midrash che mentre Isacco si legò volontariamente all’altare del sacrificio e Abramo si accingeva a compiere il sacrificio, il Signore vide "come fosse uguale il cuore dei due: sgorgavano lacrime dagli occhi di Abramo e le lacrime cadevano su Isacco legato. Isacco piangeva e le sue lacrime cadevano sulla legna che era tutta bagnata. Tutta la creazione piangeva. Poi Abramo prese il coltello per immolare il figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò e disse: «Abramo, Abramo! ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato il tuo figlio, il tuo unico figlio!»". Sul Moria Abramo ha sperimentato questo amore, ha visto il giorno che non muore, il volto di Cristo impresso in quel figlio offerto e riscattato. Dopo l’intervento dell’angelo infatti Abramo, secondo il Targum, ha chiamato quel luogo: Qui il Signore fu visto. Al culmine dell'angoscia Abramo ha visto che "Dio è favorevole", ha visto il giorno di Cristo.

Quel giorno è la gioia vera, quella che annunciava Sukkot, la gioia della Torah compiuta, della luce e dell'acqua della vita che non si esauriscono e illuminano e fecondano per l'eternità. Il giorno di Gesù è la gioia vera ed autentica che i discepoli hanno sperimentato la sera di Pasqua: "In verità, in verità io vi dico: voi piangerete e gemerete... Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia... Ora siete nella tristezza, ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia" (Gv. 16, 20.22). Il giorno del rifiuto, della persecuzione, quando tutti gli uomini, mentendo, parleranno male dei discepoli del Signore: il giorno delle beatitudini: "Vi dico, in quel giorno rallegratevi". Abramo ha visto il giorno di Gesù perchè Gesù, ritornando vittorioso dalla tomba, lo aveva visto nello sguardo di Isacco salvato dalla morte, immagine profetica dell'Uomo delle beatitudini. E' questa l'esperienza più profonda, quella che ci attende nella notte di Pasqua: guardare Cristo fisso negli occhi, come Abramo ha fissato suo figlio. Piangere con lui, delle lacrime del getsemani. Tremare con Lui quando tutto, ma proprio tutto ci è tolto. "Fiat lux, fiat voluntas, un’eco lontana risponde alla prima, alla parola di creazione, un’eco fedele: un secondo inizio risponde al primo; una seconda creazione risponde alla prima" (Charles Péguy, Getsemani). La luce della Pasqua che brilla nell'obbedienza del Figlio, l'obbedienza di Abramo, di Isacco, di ciascuno di noi. Al culmine della notte brilla la luce, nel fondo dello sconforto e della paura, proprio allo spegnersi di ogni certezza, anche quella della preghiera e della stessa Parola di Dio, quando tutto tace e ci troviamo schacciati dall'incomprensibile, appare il volto di Cristo che s'erge trionfante sulla morte. Non vi è altra gioia che ci interessa:"abbracciare già fin d’ora la "vita", la vita vera, che non può più essere distrutta da niente e da nessuno. (J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, volume II). Abbracciare Isacco ridonato, abbracciare Cristo, vita nostra.



Sant’Ambrogio (circa 340-397), vescovo di Milano e dottore della Chiesa
Su Abramo, I, 67-78


« Abramo vide il mio giorno »


“Dio disse ad Abramo: Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò” (Gen 22,2). Isacco prefigura Cristo che sta per soffrire. Viene su un’asina...; quando il Signore venne per soffrire per noi la sua Passione, sciolse il puledro, figlio dell’asina sul quale salì... Abramo disse ai suoi servi: “Torneremo da voi”; ha profetizzato ciò che ignorava... Isacco ha portato la legna; Cristo, il legno della croce. Abramo acompagnava suo figlio; il Padre accompagnava Cristo. Disse infatti: “Mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me” (Gv 16,32). Isacco disse a suo padre... “Ecco qui la legna ma dov’è l’agnello per l’olocausto?” Disse delle parole profetiche, pur senza saperlo; il Signore infatti preparava un agnello per l’olocausto. Anche Abramo ha profetizzato rispondendo : “Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausato, figlio mio”...

“L’angelo del Signore gli disse: “Abramo, Abramo... non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che temi Dio e non hai risparmiato il tuo figlio prediletto per me” (cfr Rm 8,32)... Abramo alzò gli occhi e vide un ariete appeso con le corna in un cespuglio” . Perché un ariete? È quello che ha il valore più grande nel gregge. Perché appeso? Per farti vedere che questa non era una vittima terrena... Il nostro corno, la nostra forza, è Cristo (lc 1,69), che è superiore ad ogni uomo, come leggiamo: “Tu sei il più bello tra il figli dell’uomo” (Sal 44,3). Solo lui è stato innalzato da terra ed esaltato, come insegna lui stesso con queste parole: “Io non sono di questo mondo. Sono di lassù” (Gv 8,23). Abramo in quell’olocausto ha intravvisto la sua Passione; per questo il Signore disse di lui: “Abramo vide il mio giorno e se ne rallegrò”. Egli è apparso ad Abramo, rivelandogli che il suo corpo avrebbe sofferto la Passione grazie alla quale egli ha riscattato il mondo. Indica pure il genere di Passione che avrebbe sofferto mostrandolo appeso; quel cespuglio è il legno della croce. E, innalzato su quel legno, la guida incomparabile del gregge ha attirato tutti a sé, per farsi conoscere da tutti.


Sant'Ireneo di Lione (circa130-circa 208), vescovo, teologo e martire
Contro le eresie, 4, 5-7 ; SC 100


« Abramo vide il mio giorno, e se ne rallegrò »

Poiché Abramo era profeta, vedeva nello Spirito il giorno della venuta del Signore e il disegno della sua Passione, per mezzo della quale lui stesso e tutti coloro che credebbero in Dio verrebbero salvati. E trasalì di una grande gioia (Gn 17, 17). Abramo quindi conosceva il Signore, poiché desiderò vedere il suo giorno... desiderò vedere quel giorno per poter anche lui abbracciare Cristo, e avendolo visto in modo profetico, esultò.

Perciò Simeone, essendo della sua posterità, compieva la gioia del patriarca dicendo : « Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola ; perché i miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli » (Lc 2, 29)... e Elisabetta disse [secondo alcuni manuscritti] : « L'anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore ». L'esultanza di Abramo scendeva, in tal modo, su coloro che vegliavano, che vedevano Cristo e credevano in lui. E, da questi suoi figli, questa esultanza risaliva fino ad Abramo...

A buon diritto dunque il Signore gli rendeva testimonianza dicendo : « Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno : lo vide e se ne rallegrò ». E non disse questo soltanto riguardo ad Abramo, ma a tutti coloro che, dal principio, acquistarono la conoscenza di Dio e profetizzarono la venuta di Cristo. Infatti ricevettero questa rivelazione dal Figlio stesso, quel Figlio che in questi ultimi tempi si è fatto visibile e palpabile e si è intrattenuto con gli uomini per far sorgere da pietre, figli di Abramo (Mt 3, 9) e rendere la sua posterità numerosa come le stelle del cielo.


Charles Péguy. LA NOTTE DEL SIGNORE
Tratto da Getsemani.

Tutto era pronto. La vita di famiglia, trent'anni, aveva avuto luogo. La vita pubblica, tre anni, aveva avuto luogo. La vita di casa, il banco di lavoro e la morsa, la sega e la pialla, era finito, questo era stato fatto. La vita di popolo, la montagna e la pianura, e il lago di Tiberiade, la predicazione e le similitudini, la curva delle parabole, lungo le strade, era finita; questo era stato fatto. Tutto era pronto. Il coronamento stava per cominciare. Il coronamento stava per aver luogo. Tutto era pronto. Tutte le virtù private e pubbliche, tutte le virtù eroiche dei trenta e tre anni stavano per culminare nel sacrificio supremo.

Durante anni e anni l'albero della croce, pazienza vegetale, senza miracolo aveva preparato la durezza del suo legno. In qualche palude del Giordano la canna era spuntata, lo scettro di derisione, una canna era spuntata, la canna unica e una spina, senza miracolo, una santa spina era spuntata in qualche macchia giudea, in qualche macchia ebraica. Una spina nera, una spina purpurea, forse un semplice rovo, una grossa spina di quei paesi. Tutti erano chiamati in servizio; gli uomini erano chiamati in servizio; gli attrezzi eterni erano pronti, gli strumenti della salvazione del mondo.

Giuda era pronto e il bacio saliva alle labbra di Giuda. Il bacio che attendeva dai secoli dei secoli. Il bacio che nei secoli dei secoli in seguito si ripercuoterà eternamente. Il bacio annunciato, il bacio che si ripercuote da tutta l'eternità.
E in una camerata in basso, appoggiata al terzo affardellamento, la lancia, la lancia per il Fianco, aspettava.
Tutto era pronto, lui solo, lui solo non lo era. Tutta la creazione era convocata, era stata convocata. r.:appello era fatto; non soltanto l'appello di quella prima decuria, e della sinistra di quella seconda, e di Malco: l'appello della creazione intera.

E come la lancia era pronta, anche gli angeli erano pronti. Come la lancia era pronta all'equipaggiamento del Romano, nello stesso modo gli angeli si preparavano. Sorpresi di dover raccogliere un sangue d'uomo, un sangue di Dio, un sangue d'uomo di Dio.
Lui stesso era preparato, la sua preparazione era fatta. La sua volontà era decisa da tutta l'eternità. Aveva deciso questo. Nessuno gli forzava la mano. Chi del resto, chi poi gli avrebbe forzato la mano. Niente lo forzava, niente gli forzava la mano, e ad occuparsi di quell'affare, niente se non un amore immenso, niente se non il suo immenso amore infinito, niente l'aveva trascinato in quell'affare se non un amore immenso, il suo infinito amore eterno. Da tutta l'eternità si era imbarcato in quell'affare.

Da tutta l'eternità la sua decisione era presa. Adesso poteva fermare tutto, disdire Giuda e disdire Barabba, disdire Pilato e disdire Caifa, disdire Malco. L’eternità stessa attendeva, figlio mio, lei che non attende mai, che non attende affatto. Leternità stessa era sospesa. E lui stesso attendeva come il suo coronamento, da tutta l'eternità sapeva, da tutta l'eternità attendeva questo coronamento. Singolare. Sapere, amico mio, come si vedeva bene, su quest'esempio eminente, su quest'esempio singolare, che c'è un abisso tra sapere e fare, tra sapere la morte (la propria morte) e passarvi. Lui stesso il suo amore attendeva. Da tutta l'eternità il suo amore infinito, il suo amore eterno attendeva. E che c'è un abisso tra volere e fare, tra volere la morte, la propria morte, e anche la morte degli altri, e passarvi.

Perché infine questa volontà che egli diceva altra, di un altro, questa volontà che diceva estranea, alienam, questa volontà che chiamava la volontà di suo padre, non la sua, verumtamen non sicut ego volo, sed sicut tu, infine questa volontà non era soltanto la volontà di suo padre; era anche la sua; da tutta l'eternità era propriamente la sua.
Lui stesso aveva messo l'ultima mano alla sua istituzione, alla fondazione della sua città. La Chiesa era fondata. Pietro era investito. Il pane era stato cambiato in corpo e il vino era stato cambiato in sangue, il vino dell'uva della vite. Cosa dev'essere mai la morte, figlio mio, perché in quel momento egli abbia avuto un'esitazione, perché un'esitazione atroce l'abbia fatto un istante tentennare. Lui stesso l'ultimo dei profeti, il principe dei profeti, aveva tre e quattro volte profetizzato la sua propria morte, aveva appena profetizzato la sua passione e la sua morte.

Ed ecco che non solo stava per smentire tutti gli altri profeti. Ma stava per smentire se stesso profeta. Cosa dev'essere mai la morte, amico mio, figlio mio, perché il solo avvicinarsi, perché la sola attesa, perché la sola apprensione della morte l'abbia messo in un tale stato, in quello stato. Perché non ci si deve ingannare, amico mio, e non dissimulatevelo, era questo, e questo soltanto, che era nel cuore del supplizio, che era il midollo e il cuore della passione!

In questo senso non vi sfugge che la sua passione e soprattutto che la sua morte era come un compimento e nello stesso tempo come una prova e un controllo, una verifica, quasi una concentrazione, una realizzazione suprema della sua incarnazione.
Chi moriva come uomo, a quel punto come uomo, era dunque bene uomo, era dunque ben stato incarnato uomo. Era come una prova per mezzo del limite. Avrebbe dovuto subire la morte, la morte ordinaria, la morte comune, figlio mio, la morte come in Villon, la morte di ogni uomo, la morte di tutti quanti, la sorte comune, la morte comune a tutti quanti, la morte di cui vostro padre è morto, figlio mio, e il padre di vostro padre.

Quale deve essere, figlio mio, quale bisogna che sia questa morte, perché egli abbia preso giustamente questo tempo, in cui immensi preparativi, a cui immense promesse facevano capo, per segnare questo tempo di sosta, questo tempo di spavento, questo tempo di stupore, diciamo la parola, questo tempo di vacillamento, diciamo la parola, questo tempo di arretramento. Questo tempo di sbigottimento.
Per tirar fuori infine questa spaventosa preghiera. Questa atroce preghiera di un'ansietà carnale, di un'ansietà come eterna, quest'atroce preghiera di un'angoscia infinita. Transeat a me Pater mi, si POSSIBILE EST, transeat a me calix iste. Testo niente affatto commovente, come è stato detto migliaia di volte, in tutti i romanticismi, laici, ecclesiastici, antichi, moderni, cristiani, atei. Ma testo letteralmente spaventoso, molto precisamente spaventoso.

Tutti i testi vanno nello stesso senso, i profeti, i santi, e lui profeta e santo. Tutti i testi vanno nello stesso senso che è il senso del compimento della salvezza. E un solo testo contrasta. Un solo testo respinge. Ed è precisamente il testo dell'apprensione della morte.
E fu precisamente il tempo che egli prese, quando tutto attendeva, quando la creazione era sospesa alle labbra del suo Dio, fu precisamente il tempo che prese per darci, per lasciarci questo testo: il testo dell'apprensione della morte per non entrare in tentazione. Perché lo spirito è pronto, ma la carne è debole. Parole spaventose, che non si vogliono affatto intendere nel loro senso, spaventoso.

Testo spaventoso che non si vuole affatto leggere, che si venera, che non si vuole leggere, che si venera per non leggerlo. Parole spaventose, che si venerano per non intenderle. Le si intende, le si legge, come un rimprovero, a quei bambini che siamo, sarebbe come un biasimo, conosciuto, abituale, registrato, dunque senza importanza, digerito, come un ammonimento, una sgridata. Gesù, in questa versione, in questa lettura, Gesù riprenderebbe Pietro come dall'alto, come uno che sa correggerebbe, riprenderebbe uno che non sa, come uno che può riprenderebbe uno che non può.

Amico mio, è tutto il contrario, diametralmente il contrario. Nel momento in cui insegna a quei disgraziati la tentazione e di vegliare e di pregare per non entrare nella tentazione, e che lo spirito è pronto e che la carne è debole, quale riflessione, quale conversione non doveva operare su se stesso, quale marcia indietro non doveva fare su se stesso (sulla sua anima) e sulla sua propria carne.
Era tra il suo primo e il suo secondo, dobbiamo dirlo, mancamento, era tra la sua prima e la sua seconda preghiera di supplica; dopo la prima, prima della seconda. Aveva appena provato, in se stesso, aveva appena conosciuto, istantaneamente aveva conosciuto cosa sia quell'angoscia spaventosa e nella sua propria carne aveva conosciuto cosa sia la debolezza della carne, l'infermità di ogni carne.

Ecco, sembrava dire [era soltanto il fratello, che aveva appena parlato al padre, al Padre comune, era il fratello che (se ne) tornava verso i suoi fratelli, verso uno, verso tre fratelli più giovani, verso tutti i cristiani suoi fratelli (più giovani) e che sembrava dire loro]: Vedete cosa è la nostra carne, e la nostra tentazione. Bisogna vegliare. Bisogna pregare. Non si è mai tranquilli. Per la seconda volta se ne andò, e pregò, dicendo: Padre mio, se questo calice non può passare senza che io ne beva, sia fatta la tua volontà.

Iterum secundo, per la seconda volta se ne va, per la seconda volta prega, per la seconda volta dice: Si non potest, come riprende, come ripete il si possibile est della prima volta, del primo ritiro, della prima solitudine, della prima preghiera. Ma si arrende, si sottomette. E già al negativo: Si non potest; si non possibile est. Nisi bibam illum: si rappresenta già di berlo. Fiat voluntas tua, come riprende il sicut tu. Ma in negativo anche, al contrario, il sicut ego volo (voluntas mea) scompare anch'esso qui.

E per un meraviglioso accordo interiore come risuscita qui, come rianima, come rinnova, come richiama, come rimemora la preghiera (orans, et dicens; oravit, dicens) , come ritrova qui la preghiera che ha lui stesso insegnato agli uomini, lui stesso inventato al tempo della sua predicazione, lui stesso concepito, ricevuto, in un colpo di santità, la preghiera che aveva lui stesso deciso, trovato, insegnato sulla montagna, nel sermone, nel discorso sulla montagna. Cioè in questo culmine del suo sgomento, nel momento stesso in cui, uomo, aveva più bisogno di preghiera, in cui aveva un bisogno maximum di preghiera, un bisogno culminante, lui stesso come uomo, lui stesso uomo ritrova questa preghiera, questa stessa preghiera, perché anche a se stesso, a se stesso uomo, anche a sé se l'era insegnata.

Perché se l'era insegnata a lui stesso, a lui uomo, come a noi; e in quella notte tragica fu quella preghiera che gli risalì alle labbra, la formula stessa di quella preghiera; ma non più nella sua continuità sulla montagna, in quella bella continuità del suo sermone: Pater noster, qui es in coelis, sanctificetur nomen tuum; adveniat regnum tuum; fiat voluntas tua. Non più quel bel ritmo di fiume e quella continuità, ma una preghiera spezzata, rotta, atroce, in quella notte tragica, la stessa preghiera frammentaria, spezzata dalla tragicità di quella notte. Pater mi, si non potest hic calix transire nisi bibam illum, fiat voluntas tua.

E questa forma come ritirata, come serrata, quest'invocazione come ritirata a sé, Pater mi invece di Pater noster, che attira, che attrae, che riavvicina suo Padre a sé; che fa, che dà una tale fusione, una tale penetrazione delle sue due persone che dicendo questa preghiera d'uomo non si sa di colpo fino a che punto non parli di colpo, molto specialmente, particolarmente, quasi professionalmente, come tecnicamente, da figlio di Dio, bisogna credere che questa inaudita, che questa avocazione incredibile, eco della tripla preghiera, non dicesse niente, non volesse dir nulla, non significasse nient'altro che la morte carnale e la paura della morte carnale: Mio Dio, mio Dio, ut quid dereliquisti me?

Perché mi avete abbandonato?, che questa strana, che quest'incredibile avocazione non mascheri, non sveli, non nasconda un'altra paura e un'altra morte, che non denunci affatto, che non riveli affatto un altro mistero, un mistero mistico, un mistero infinitamente più profondo. Mettiamo che avesse un corpo, e che il suo corpo si fosse ben difeso. Il suo corpo si era rivoltato, il suo corpo si era ribellato davanti alla morte, davanti alla morte del corpo.

E lui stesso seguì il suo corpo, in un certo senso (come noialtri peccatori e come così spesso i santi), seguì come un pover'uomo il suo corpo, l'indicazione del suo corpo, l'invocazione del suo corpo, l'avocazione del suo corpo. Compiendo così, con un coronamento meraviglioso, compiendo la sua incarnazione nella sua redenzione.

Fiat lux, et lux fuit; lux facta. Verumtamen non sicut ego volo, sed sicut tu. Fiat voluntas tua; et voluntas ejus fuit; voluntas facta. A cinquanta secoli di distanza, da prima di Adamo, fino al nuovo Adamo, fino a quel nuovo Adamo, secondo lo stesso ritmo a titolo di eco fedele questa stessa parola, quest'eco risuonò. E a un intervallo di più di cinquanta secoli di distanza il grido della seconda creazione rispose alla parola della prima creazione.

Nella prima, all'inizio, alle soglie della prima (un) Dio attivo, (un) Dio di comando e d'inizio aveva pronunciato (gloriosamente) una parola di comando, una parola d'autorità, una parola di creazione, una parola attiva, effettiva, efficace. Nella seconda, all'inizio, alle soglie della seconda (un) Dio umile, (un) Dio sottomesso, (un) Dio ritirato, aveva pronunciato fedelmente, in tutta fedeltà, da eco fedele, (un) Dio umile aveva pronunciato umilmente, sottomesso, un'umile parola d'umiltà, di sottomissione. Di passione.

Ecco, cristiani, ecco il vostro progresso; ecco qual è il progresso per voi, il vostro reale, il vostro religioso progresso. Più di cinquanta secoli di progresso, di un progresso, del vostro progresso, portano a questo, a questo secondo inizio: un Dio caduto in avanti sulla faccia, procidit in faciem suam, un Dio prostrato sulla faccia della terra, un Dio lo stesso, un Dio umile, un Dio sottomesso, in tutto lo sconforto e più che in tutta l'umiltà dell'uomo.

Fiat lux,fiat voluntas, un'eco lontana risponde alla parola prima, alla parola di creazione, un'eco fedele: un secondo inizio risponde al primo; una seconda creazione risponde alla prima; e questo secondo comandamento.
E come la prima creazione era la creazione di tutto il mondo, la creazione dell'universo, totius orbis universi, di tutta la creazione questa seconda creazione, questa eco fedele, questa fedeltà non è altro, non sta per essere altro propriamente che la creazione dello spirituale, che essere la propria creazione propria, ritardata più di cinquanta secoli, del mondo spirituale.

Legami, Targûm su Gen. 22 (il testo riportato è tratto da S. P. Carbone – G. RizziLe Scritture ai tempi di Gesù, op. cit., 109-110):

E avvenne, dopo questi avvenimenti, che YHWH mise alla prova Abramo per la decima volta e gli disse: Abramo! Abramo rispose nella lingua del santuario, e Abramo gli disse: Eccomi…Isacco disse: Ecco il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto? Abramo rispose: Davanti a YHWH sta preparato per lui l’agnello per l’olocausto. Se no sei tu l’agnello per l’olocausto. E andarono tutti e due assieme con un cuore perfetto. E vennero nel luogo che YHWH aveva indicato e Abramo costruì l’altare, dispose la legna, legò suo figlio Isacco e lo mise sull’altare sopra la legna. E Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio Isacco. Isacco prese la parola e disse ad Abramo suo padre: Padre mio, legami bene, in modo che io non ti impedisca e che la tua offerta non sia resa invalida, e che io non sia gettato nella fossa della perdizione del mondo futuro. Gli occhi di Abramo si volsero verso gli occhi di Isacco e gli occhi di Isacco si volsero verso gli angeli su in alto. Isacco li vide, ma Abramo non li vide. In quello stesso momento venne una voce dal cielo e disse: Venite a vedere i due soli che ci sono al mondo. L’uno immola e l’altro è immolato. Colui che immola non si rifiuta e colui che è immolato presenta la gola. E l’angelo di YHWH lo chiamò dai cieli e gli disse: Abramo! Abramo rispose nella lingua del santuario. Eccomi. Gli disse: Non stendere la mano sul ragazzo e non fargli alcun male, poiché io so che tu ora temi YHWH e non gli hai negato il tuo figlio, il tuo unico figlio. Abramo alzò gli occhi e guardò: ed ecco che vi era un ariete tra gli alberi, impigliato per le corna. Abramo l’andò a prendere e l’offrì in olocausto al posto di suo figlio. Allora Abramo rese culto e pregò il nome della Parola di YHWH e disse: Io ti prego, per il tuo stesso amore, o YHWH. Tutto è scoperto e conosciuto davanti a te. Ora, non c’è stata divisione nel mio cuore al momento in cui tu mi hai detto d’immolare Isacco mio figlio e di renderlo polvere e cenere davanti a te. Ma subito io mi sono levato all’alba e con zelo ho portato a compimento la tua Parola e con gioia ho eseguito la tua decisione. Ma ora, io ti prego per la tua misericordia, allorché i figli d’Isacco si troveranno in un tempo di difficoltà, ricordati della legatura d’Isacco loro padre ed ascolta la voce delle loro suppliche. Esaudiscili e liberali da ogni tribolazione. Così le generazioni future diranno: Sulla montagna del Santuario di YHWH dove Abramo offrì Isacco suo figlio, su questa montagna gli è apparsa la gloria della Presenza di YHWH.

Si può fare un confronto con Midraš Genesi Rabbah (il testo riportato è tratto da S. P. Carbone – G. Rizzi, Le Scritture ai tempi di Gesù, op. cit., 110):

“Un’altra spiegazione: Disse R. Jishaq: Quando Abramo stava per legare Isacco suo figlio, questi gli disse: Padre, io sono giovane e ho paura che forse tremi il mio corpo per la paura del coltello, mi faccia del male e forse la macellazione non sia valida e non ti sia considerato quale sacrificio: dunque legami bene e subito. E legò Isacco suo Figlio (Gn 22,9). Può un uomo legare un figlio di 37 anni senza il suo consenso? Subito stese Abramo la sua mano (Gn 22,10). Stendeva la mano per prendere il coltello e dai suoi occhi scendevano le lacrime, e le lacrime che provenivano dalla compassione paterna cadevano sugli occhi d’Isacco, tuttavia egli era felice di eseguire la Volontà del suo Creatore, mentre gli angeli si raccoglievano in schiere al disopra, e che cosa dicevano? Sono deserte le strade ed è cessato il transito per le vie, è stata infranta l’alleanza, ha disprezzato la città (Is 33,8). Non si compiace più di Gerusalemme e del Santuario che aveva intenzione di dare in possesso ai discendenti di Isacco. Non si tiene conto dell’uomo. Non sussiste il merito di Abramo. Nessuna creatura è considerata ai suoi occhi. Disse Rabbi Aha: Abramo cominciò a meravigliarsi: questi fatti non sono altro che fatti che portano stupore! Ieri dicesti: la tua discendenza prenderà il nome da Isacco (Gn 21,12), ed oggi hai cambiato e hai detto: prendi tuo figlio (Gn 22,2). Ed ora tu mi dici: Non mettere le mani addosso al ragazzo! Gli disse il Santo, che egli sia benedetto: Abramo, non infrangerò mai la mia alleanza ed il detto delle mie labbra non muterò (Sal 89,35), la mia alleanza manterrò con Isacco. Quando ti ho detto: Prendi tuo figlio, non ti ho detto: Scannalo, ma: Fallo salire (gioco sul TE della radice ’lh, che può voler dire ‘olocausto’ o ‘salire’). Te l’ho detto per amore, l’hai fatto salire ed hai eseguito il mio ordine, ora fallo scendere”.